Mangiare a cena fuori dovrebbe essere un momento piacevole, ma spesso capita che qualcosa vada storto: ecco alcuni dei peggiori momenti al ristorante.
Ah, la cena fuori: che sia al grande ristorante o all’osteria, al giapponese o al vegetariano non importa, perché prima di tutto la cena fuori è lasciarsi alle spalle lo stress. È svago e soprattutto è condividere bei momenti con le persone che ami. Illusi: la cena fuori è per eccellenza il generatore di stress in tutte le accezioni note all’umanità. E si inizia prima ancora di entrare: dove andiamo a mangiare?
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Prima di uscire. Tu, povero inguaribile ottimista, pensi che le svariate tipologie di locali oggi a disposizione faciliti di gran lunga le cose, vero? Falso: c'è chi mangia solo thai, chi pretende un ristorante vegetariano con piatti che ricordino la carne, come ad esempio la tartare di broccoli; c'è chi mangia solo la pizza romana con condimento napoletano oppure pretende che la carne provenga solo da mucche argentine pascolanti in Danimarca e carezzate in modo kobe. Quando finalmente uno dei tuoi amici, la tua dolce metà oppure tuo zio (quello cattivo) si sarà imposto, partirà il dramma.
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Conversazione. Si entra nel locale prescelto e a metà dei commensali non piace affatto. Succede anche alle coppie: se piace a lei, non piace a lui e viceversa. Dopo essersi seduti di malavoglia, ecco il primo scoglio, quello socio-vocale: di che parlare? "Tempaccio, eh?", "Eh già...". Parlare del tempo è davvero l'ultima spiaggia, ma ecco lo spiraglio: vedete arrivare un amuse-bouche, non richiesto ma salvifico. Non sono bruschettine e mozzarelle, non sono prosciutto e panzerottini: sono argomenti di conversazione, la vostra salvezza. "Ottimi questi panzerottini!", dite voi. "Davvero? A me sembrano pessimi": fine della conversazione.
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Sorrisi smaglianti. Finalmente si ordina. Apri il menu e ovviamente sei capitato nell'unico ristorante in cui i piatti sono tutti a base di ingredienti da imbarazzo sicuro, come il nero di seppia, la rucola e gli spinaci. Il digiuno non è contemplato, ordinate. In fondo al tunnel verde scuro (un misto di nero di seppia e spinaci), vedete un piccolo spiraglio: in fondo basta evitare di pronunciare le A, le I, una decina abbondante di consonanti, e in bocca non si vedrà nulla. La conversazione, già scarsa e penosa, vede crollare su di sé un'incudine di 250 kg.
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Conto. L'occhio diventa vitreo, la fronte si imperla di sudore, la mano inizia a tremare debolmente e le palpitazioni arrivano al galoppo: chi paga il conto? O meglio: chi dovrebbe pagarlo? Questo è il vero dramma intergenerazionale, intersessuale, interregionale e atemporale che chiunque, prima o poi, si troverà ad affrontare. Il conto è quel brutto momento che distrugge la digestione e l'affetto tra i commensali; tutti si fissano in un interminabile stallo in stile messicano, un gioco di sguardi dalle conseguenze atroci.
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Conto #2, le domande esistenziali. Esci col tuo lui o la tua lei? Sarà emancipata? Sarà cavaliere? Passo per taccagno? Mi becco una pizza (oltre alla gommosa margherita) perché passo per maschilista? E la mano si paralizza sul portafoglio in una fiacca imitazione del Bonaparte. E tra commensali di età diverse? Paga il più anziano? Il più giovane? Il più ricco? Il festeggiato? Tutti tranne il festeggiato? E gli altri, cosa si aspettano che faccia? E il più vecchio che non ci teneva a far sapere di essere tale?
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