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Il lato umano dei grandi brand: Roberta Ceretto

di Francesco Canino • Pubblicato 7 Giugno 2016 Aggiornato 8 Giugno 2016 08:53

Roberta Ceretto, volto dell’omonima azienda vitivinicola, si racconta ad Agrodolce parlando di progetti futuri, arte e grandi chef.

Le Langhe sono una terra impastata di grandi tradizioni, di pionieri che conoscono la terra e le dinamiche del mercato e di famiglie che hanno saputo trasformarsi in brand conosciuti in tutto il mondo. i ceretto, una famiglia che ha legato il proprio nome a prodotti di culto come barolo e barbarescoCome i Ceretto, che dagli anni ’30 ad oggi – ovvero dalla fondazione dell’azienda per mano del patron Riccardo – hanno macinato fatturati record e legato il loro nome a prodotti culto come Barolo e Barbaresco, crescendo negli ultimi 30 anni anche grazie al Blangé, un Arneis del Roero che oggi veleggia oltre le 600.000 bottiglie l’anno. Merito delle intuizioni geniali dei Barolo Brothers, Bruno e Marcello Ceretto, e poi ancora delle doti imprenditoriali e dell’estro creativo dei figli e dei nipoti. Così la famiglia ha scommesso negli ultimi due decenni sulla ristorazione d’alta gamma – ed è nato così il Piazza Duomo di Alba affidato a quel gran genio di Enrico Crippa – e poi ancora sull’arte contemporanea e sulla grande architettura che ha trasformato il volto delle cantine di famiglia e delle colline langarole. Ecco cosa racconta ad Agrodolce Roberta Ceretto – figlia di Bruno – a pochi giorni dal viaggio a New York con Crippa in occasione della cerimonia dei World’s 50 Best Restaurant di San Pellegrino.

famiglia ceretto

Roberta, ripesca un’istantanea della memoria: qual è il primo ricordo che leghi all’azienda di famiglia e al mondo del vino?
È quasi un fotogramma indelebile ed è legato alla vendemmia a Bricco Asili, dove produciamo il Barbaresco. Per noi bambini era un gioco, perché ci sporcavamo a raccogliere l’uva, salivamo sul trattore e poi lì c’era un grande cane, un dobermann, cui ero molto legata. Lì la nonna, le zie e mamma cucinavano e facevamo grandi pranzi: respiravo una dimensione più familiare.

Oggi la vendemmia è un momento molto diverso.
È cambiato tutto da quando l’azienda ha puntato anche sul Moscato e sul Blangé. Le vendemmie sono momenti collettivi che coinvolgono decine di persone ed è difficile ritrovare quell’atmosfera conviviale. Non è più la festa di famiglia, insomma: ma per fortuna il Natale alla tenuta Monsordo per i Ceretto è ancora un rito irrinunciabile.

Per te, tuo fratello e i tuoi cugini non è facile raccogliere l’eredità dei Barolo Brothers, ovvero tuo padre Bruno e tuo zio Marcello, l’anima del brand Ceretto. Cosa hai ereditato dall’uno e dell’altro?
Caratterialmente molto diversi: mio padre è il frontman creativo, mio zio è più schivo e riservato, quello che svolge il lavoro fondamentale dietro le quinte. Per carattere, sia io che mio fratello Federico da papà abbiamo ereditato la sua passione, l’amore per i prodotti e per il territorio. Ci è stato insegnato a pensare alla terra, che poi è ciò che ci ha dato la possibilità di affermarci. Da mio zio ho imparato ad avere rispetto per il collaboratori e ad aver sempre un obiettivo da raggiungere.

Langhe

A proposito di territorio, come definiresti le Langhe?
Oltre al mal d’Africa per me esiste il mal delle Langhe. Quando vivevo a  Monaco, dove studiavo tedesco, mi mancava il punto di riferimento delle colline, mi sentivo spersa. Qui ho le mie radici, non mi immagino altrove: io vivo ad Alba e al massimo potrei spostarmi a Barolo o a Serralunga, per intenderci. Non è una provincia normale, chi ci vive ha la sensazione di essere in un mondo parallelo, forse perché il 50% delle persone qui parla inglese. Le Langhe sono provinciali e internazionali al tempo stesso.

Cosa manca alla Langhe?
Le strutture alberghiere. Barolo e tartufi sono prodotti esclusivi, ma le strutture non reggono il passo. Durante la Fiera del tartufo si superano le 100 mila presenze ma ci sono ancora pochi posti dove dormire, anche se lentamente le cose stanno cambiando.

Il tuo angolo langorolo del cuore?
Brunate, senza dubbio, dove sorge la cappella del Barolo. Intorno ai 25 anni pensavo alla carriera universitaria – mi sono laureata in letteratura sudafricana – e mi piaceva l’idea di insegnare. Poi sono stata coinvolta nel progetto con gli artisti e ho capito che la mia strada era in azienda.

roberta ceretto 2

Negli ultimi vent’anni il brand Ceretto ha sposato molti progetti collaterali, sterzando sul mondo dell’arte tanto da diventare dei mecenati. Com’è nata questa idea?
Quasi per caso. La prima collaborazione è arrivata proprio con la cappella di Sol LeWitt e David Tremlett: quest’ultimo era al Castello di Barolo per allestire una mostra e capitando per caso davanti alla chiesetta decise di recuperarla coinvolgendo il suo amico. Da lì è iniziato un percorso tra arte contemporanea, architettura che cambia il volto delle cantine e design: ogni progetto è stato apprezzato e abbiamo capito che il binomio vino-arte per quanto stravagante riusciva a far vedere Langhe in maniera più moderna, da una prospettiva insolita. Il tutto sempre visto come investimento sul territorio: siamo dei collezionisti di esperienze, più che di arte.

“Guardare al futuro” è una frase che sta molto a cuore ai Ceretto. In quale ottica?
Lavoriamo in un ambito apparentemente tradizionale che in realtà si è evoluto moltissimo, anche a livello tecnologico. Guardiamo al futuro anche in chiave di rispetto per l’ambiente, tanto che dal 2015 abbiamo convertito tutta la produzione al biologico. Non è una questione di marketing ma di consapevolezza.

Torniamo alla memoria, questa volta gustativa e olfattiva. I tuoi ricordi a che vino sono legati?
Al barolo, ma non solo per una questione culturale. Per me il barolo è la bottiglia che nelle occasioni significative e importanti non manca mai.

E il vino da tutti i giorni?
Beh il dolcetto, perfetto dal pranzo frugale alla cena. Qualcuno dice che è un po’ passato di moda, ma per me resta un ottimo vino.
Dici Ceretto e pensi immediatamente al Piazza Duomo di Alba, ristorante culto per tutti i gourmet grazie alla cucina di quel gran genio di Enrico Crippa, chef tristellato.

Com’è nata la collaborazione con la tua famiglia?
È tutto merito di Carlo Cracco. Mio padre molti anni fa andò a cena a Erbusco da Gualtiero Marchesi, che però quella sera non era in cucina: al timone della brigata c’era Cracco, che negli anni ’80 aveva lavorato ad una cena al castello di Barolo e aveva conosciuto mio padre. Carlo gli disse che gli sarebbe piaciuto aprire un ristorante e papà lo aiutò ad aprire un locale a Piobesi: nasce così Le Clivie, il ristorante più sottovalutato della storia locale, che decollò solo dopo la prima stella. Cracco si fa notare e Stoppani lo chiama da Peck a Milano.

crippa

Cracco dunque trasloca a Milano ma prima gli suggerisce Crippa.
Vent’anni fa le Langhe non erano quelle di adesso, intendiamoci. C’erano tanti ottimi ristoranti ma mancava il timone della ristorazione ed era una situazione paradossale visto che qui si produce uno dei vivi più importanti d’Italia. Papà chiede consiglio a Cracco che gli suggerisce Enrico Crippa, all’epoca impegnato in un ristorante a Paderno d’Adda. Fu amore a prima vista, papà gli cedette il 49% dell’attività e dal 2003 ha costruito la cucina come voleva lui, avendo carta bianca su tutto.

Un’altra sfida vinta per la famiglia Ceretto, una storia che dura da 13 anni.
Una storia professionale e umana. Enrico per me è un secondo fratello, tanto che festeggiamo anche il Natale con lui.

Tra qualche giorno Crippa vola a New York per un doppio appuntamento, a ridosso della cerimonia del World’s 50 best Restaurant di San Pellegrino.
Enrico difficilmente esce dalla sua cucina. Quest’anno l’abbiamo convinto a restare qualche giorno in più: più che una cena sarà una sorta di ringraziamento oltre che un’occasione per unire i nostri mondi, dal vino all’arte contemporanea fino alla cucina di Enrico.

50 best 2014

Dove si svolgerà questo evento?
Andrea Petrini ci ha messo in contatto con Contra, un piccolo ristorante con una grande visibilità gestito da due giovani ristoratori. Al pranzo del 9 giugno e alla cena del 10 porteremo quaranta tra amici e appassionati di cucina, abbinando i piatti ai nostri vini, in attesa del countdown del 13 giugno.

Qual è il menu proposto da Crippa?
Enrico e i due cuochi faranno un paio di piatti, poi in base alla spesa del mattino cucineranno due o più piatti assieme: sarà una sorta di improvvisazione, a seconda degli ingredienti che troveranno. Lui di solito si alza alle 7 del mattino e sceglie rispetto a ciò che trova nell’orto: dunque sarà una piccola sfida e sarà bello vederlo improvvisare.

Chiudiamo questa chiacchierata con un auspicio. Hai un figlio piccolo, che cosa gli auguri per il futuro?
Quello dei produttori di vino è uno dei lavori più belli del mondo, in cui crescita ed evoluzione sono parole chiave, non solo per noi stessi ma per tutto il territorio. Spero che abbia una visuale aperta, che viaggi, impari, che segua la sua strada, che si appassioni al vino e abbia voglia di proseguire questo mestiere.

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