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Il lato umano dei grandi brand: Beppe Musso per Martini

di Chiara Patrizia De Francisci 27 Novembre 2018 15:20

Qual è la storia dietro un grande brand come Martini? L’abbiamo chiesto a uno dei suoi volti, Beppe Musso, master blender e legato all’azienda da 25 anni.

A sbattere le palpebre al momento sbagliato ci si potrebbe perdere Pessione, frazione di Chieri appena fuori Torino. Eppure questo minuscolo comune ha contribuito a mettere sul radar nazionale e globale un nome che ormai fa parte della storia italiana: Martini. Per comprendere quanto il fattore umano sia imprescindibile ancora oggi nel costruire e conservare un’azienda storica come questa, abbiamo voluto fare due chiacchiere con uno dei pilastri di Martini, il master blender Beppe Musso.

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Beppe, qual è il ruolo di un master blender, specialmente per una realtà storica e riconosciuta a livello internazionale come Martini?
Le figure di master blender sono importanti e lo sono sempre state, perché conoscono i processi e i prodotti. Sono i custodi del savoir-faire e della storia dell’azienda. Al giorno d’oggi è sempre più importante il lato pubblico: il consumatore vuole associare anche una faccia – una persona – al prodotto. Il master blender è quindi colui che conosce le ricette, i processi, ma anche l’immagine dello stile dell’azienda.

Una figura che dà riconoscibilità, quindi
Esatto. Arrivo da una settimana in Francia in cui ho incontrato tutti i master blender del gruppo Bacardi ed è stato un bellissimo momento. Ognuno di noi sa che oggi queste figure hanno un’importanza pratica, reale, tecnica – perché siamo tecnici, io sono un enologo – ma anche una rilevanza per i nostri consumatori: in noi riconoscono lo stile e il legame con la storia dei nostri singoli brand.

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Proprio per lo stile, la riconoscibilità e la storia di Martini e delle ricette codificate da Luigi Rossi, è possibile innovare e tenere il passo con la modernità?
Assolutamente sì. Anche perché la ricetta del Martini Rosso è stata scritta da Luigi Rossi, ma ad esempio quelle del Martini Bianco e del Martini Dry sono opera dei suoi figli, che hanno lavorato come master blender. In un’azienda come Martini, tradizione ha sempre fatto il paio con innovazione: per noi quindi una tradizione è un’innovazione che è ben riuscita. Quando i nostri prodotti storici (ormai tradizionali) sono stati lanciati sul mercato, erano delle innovazioni dirompenti. Ad esempio, all’inizio del 1900, è stato introdotto sul mercato Martini Bianco, dedicato in un certo senso a un pubblico più femminile, che allora iniziava a ritagliarsi il suo spazio nella vita sociale: all’epoca il prodotto era un’innovazione incredibile; oggi, dopo più di 100 anni, è super tradizionale ed è il nostro best seller.

Si è creata una tradizione…
Certo, è diventato una tradizione. Il mio ruolo è di essere da una parte il guardiano della tradizione, ma anche (ed è fondamentale) il responsabile dell’innovazione, ossia di proporre nuove idee sul mercato. I consumatori di oggi non sono quelli di ieri: se penso anche solo a 30 anni fa, il modo in cui si beveva un aperitivo era totalmente diverso. Abbiamo il dovere di proporre prodotti nuovi che siano in linea con i desideri dei consumatori. Oggi non si beve, si degusta.

Una curiosità: c’è stato qualcuno che ha provato a chiedere di poter avere la ricetta originale di Luigi Rossi?
(ride) Ce lo chiedono tutti i bartender che vengono in visita qui, ogni settimana. Del resto fa parte dei miti e delle storie legati all’azienda. In realtà non c’è una ricetta segreta, ci sono tante ricette segrete.

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Per riconoscere la ricetta segreta senza saperne gli ingredienti esatti bisogna avere un palato e un olfatto molto sviluppati: che metodo adotti per riconoscere il prodotto senza possibilità d’errore?
Io amo dire che in realtà la ricetta di un Martini è come un grande puzzle, fatto di tanti pezzi che sono le ricette dei vari ingredienti. Mi spiego: per creare un estratto serve una ricetta a base di erbe, ma non basta. Ad esempio, in una cassa ci sono 6 erbe e ognuna contribuisce per un chilo, un chilo e mezzo… poi ci vuole una ricetta che dica come trasformare queste erbe in un estratto aromatico. Quindi si prende una cassa e si aggiunge un tot di acqua e un tot di alcol: serve un processo. Con quello che si ottiene, bisogna seguire un’altra ricetta che dirà, ad esempio, di prendere 5 ml di questo estratto e usarli insieme ad altri ingredienti per ottenere un litro di Martini. È come un quadro in cui ogni singolo tassello deve essere disegnato in modo perfetto e deve avere una forma perfetta per essere incastrato con gli altri. Ciò che ne esce è la ricetta del Martini.

Sono solo tre le persone che conoscono la ricetta segreta del Martini Rosso?
Diciamo di sì: conoscono in realtà tutti i pezzi delle varie ricette. C’è il maestro erborista, Ivano Tonutti, e poi abbiamo naturalmente una persona della finanza che controlla le ricette e tiene le chiavi – ormai informatiche ma anche reali – della cassaforte di Ginevra. Abbiamo un patrimonio storico composto da tante ricette, alcune delle quali sono ancora prodotte oggi; altre nel tempo sono andate fuori produzione. Da Martini a Pessione c’è un caveau delle varie bottiglie, con ricette magari in disuso ma che non sono ovviamente state buttate via. Diventano un patrimonio inestimabile da cui a volte attingere ispirazione anche per ricette nuove.

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Com’è iniziata la tua carriera da Martini?
Quest’anno compio 25 anni: è più tempo che sto con Martini che con mia moglie! Io sono un enologo, ho lavorato per 10 anni in diverse cantine. Quando ho avuto l’opportunità di entrare da Martini, per me era la realizzazione di un sogno: sono nato in un piccolo paesino a 15 km da Pessione (dove lavoro oggi) e per me – giovane studente di enologia – Martini era un po’ un sogno, l’azienda dove c’erano le migliori tecnologie, dove lavorare al meglio. Sono entrato al controllo qualità, che è un punto chiave della produzione: il laboratorio del controllo qualità è il perno centrale intorno a cui tutto ruota. In seguito, mi è stata presentata l’opportunità di lavorare all’imbottigliamento, dove sono diventato responsabile delle linee. Poi ho avuto quella che – in termini cinematografici – è definita una proposta indecente: il mio predecessore, Luciano Boero (responsabile della produzione dei vermouth di allora), mi ha chiesto se volevo raggiungerlo. Sono stato con lui per circa 13 anni per affinare le mie capacità: quando uno arriva in azienda pensa di essere l’enologo che sa tutto, per poi scoprire come qui i processi siano molto più complessi e unici. C’è tutta una parte legata all’erboristeria, alla distillazione, all’infusione. Con Luciano ho imparato il mestiere e quando lui ha potuto poi godersi la meritata pensione, io ho avuto l’onore di succedergli come responsabile della produzione.

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Qual è il cocktail a base Martini che bevi durante l’aperitivo?
Non esito neanche un decimo di secondo perché, se devo fare un aperitivo, chiedo inequivocabilmente un Americano: tradizionale che più tradizionale non si può. Avendo noi in produzione sia il vermouth che il bitter, quando prepariamo l’Americano non si tratta di un Milano-Torino ma di un Torino-Torino. Bitter Martini Riserva Speciale e Martini Vermouth: voilà. L’unico optional è il dash di soda, ma anche senza va bene: sono per i gusti un po’ forti (ride).

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Come nasce l’ispirazione per Martini Fiero, l’ultimo arrivato in casa Martini?
Come spesso succede, nasce dal leggere le necessità di un mercato che ci chiede sempre di più dei mixer: vuole un vermouth da bere non da solo, ma da utilizzare in un long drink, che oggi è quello che si ordina di più nel momento dell’aperitivo, dell’happy hour, del – scusate la terribile parola – apericena. In questi momenti si ha bisogno di bere qualcosa che non siano 5 cl di Martini con un cubetto di ghiaccio. Siccome oggi abbiniamo il cibo all’aperitivo, c’è bisogno di un certo volume nel bicchiere, di una bevanda più abbondante. Allo stesso tempo si deve bere qualcosa che sia piacevole, che abbia un grande gusto. Pensando a questo e alla nostra esperienza passata nella tradizione degli aperitivi, abbiamo voluto creare, se posso dirlo, quasi un cocktail in una bottiglia. Abbiamo voluto nello stesso prodotto la classica componente da aperitivo – un buon equilibrio di sostanze che riempiono la bocca come erbe, infusioni aromatiche con una ben mercata presenza amara – integrandola con il succo d’arancia. Si è pensato molto al profumo, perché i nostri vermouth tradizionali non giocano tanto sulla nota di testa: pensando in questo caso alla diluizione, abbiamo rinforzato la parte aromatica con note di arancia e mandarino. Oltre al vino, il colore bellissimo di fiero viene dai succhi concentrati di ingredienti 100 % naturali. L’unico ingrediente da aggiungere è la tonica.

Il che ci porta a Fiero Tonic…
Esatto. Abbiamo pensato Fiero proprio come un prodotto destinato alla miscelazione, soprattutto con la tonica. Naturalmente sappiamo che ci sono toniche diverse, quindi abbiamo costruito il nostro prodotto in modo da essere abbastanza di spalle larghe per reggere la diluizione al 50% e perché si sposasse bene con le principali varietà di tonica sul mercato. Le bollicine inizialmente strippano il naso e, quando serviamo Fiero Tonic, il profumo arriva subito e riempie bene le narici con le note amarognole e agrumate che immediatamente fanno pensare all’aperitivo. Mantiene una forte personalità, senza che ci sia la sensazione di diluito. Un prodotto designed specifically for cocktail.