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8 piatti romani in una versione che non vi aspettate

di Francesca Feresin 30 Aprile 2019 11:01

La cucina romana è una tradizione ricca di piatti sugosi e importanti, ma diversi chef hanno deciso di reinterpretare alcuni piatti tipici: scoprite quali.

La cucina romana è una cucina prevalentemente ricca, affogata in salse cremose in cui fare la scarpetta con il filone del forno di fiducia. Il soffritto di aglio e olio o cipolla chiama a gran voce il pomodoro per ripassare il bollito di carne o la trippa o il guanciale precedentemente rosolato. si rinnova la forma, non il contenuto E ancora il pecorino è sempre immancabile ad ammorbidire un rigatone o un tonnarello, così come l’uovo. Queste leggi della romanità impediscono alle persone di poter godere delle tipicità romane senza forchetta e cucchiaio, in giro per strada o davanti alla televisione. D’altra parte un nuovo movimento culinario sta cambiando le carte nella Capitale: sempre più ristoranti innovano la forma, non il contenuto, dei grandi classici con stupore e felicità del pubblico, sempre più dinamico e meno sedentario.

  1. Carbonara. Barbara Agosti, chef e proprietaria del ristorante Eggs di Roma, ha reinventato la carbonara proponendola su stecco. Non serve la forchetta per mangiarla, né tanto meno un piatto e una sedia comoda. Presentato a Masterchef, questo Magnum di Carbonara, o come lo ha ribattezzato la chef Strapazzo, è diventato virale. Si tratta di un parallelepipedo di spaghetti alla carbonara raffreddati, impanati, fritti in olio e infilati su uno stecco di legno. Un simil-supplì di pasta croccante all’esterno e cremoso all’interno con la salsa di tuorlo e pecorino ancora liquida e spumosa.

  2. Amatriciana. Oriente e Occidente si incontrano nella versione dell’amatriciana di Simone Ballicu, chef del ristorante Gola ai Parioli di Roma. Lo chef, infatti, non propone questa salsa rossa assieme a una pasta ma all’interno di un bao, panino cinese cotto al vapore (in copertina). Il pane è preparato in cucina e speziato con il pepe nero. Soffice, umido e leggermente dolce questo carboidrato è riccamente farcito di spalla di maiale stracotta al sugo e di una leggera e sapida spuma di pecorino romano. L’amatriciana da Gola diventa un antipasto da condividere e mangiare con le mani. Anche il nome, Matrù – c’era un cinese ad Amatrice, è originale e invoglia all’assaggio.

  3. Cacio e pepe. Ciro Scamardella, giovane chef dello stellato Pipero di Roma, propone come stuzzichino di benvenuto ad i propri cliente la cacio e pepe in versione leggerissima. Si tratta di un waffle molto leggero e areato preparato a partire da un’acqua infusa al pepe, pecorino in una percentuale del 60% e amido. Il risultato è una cialda quasi impalpabile che ricorda per profumi e sapidità la classica cacio e pepe. L’idea nasce come forma di protesta verso tutti quei ristorantini che sul mare propongono la calamarata nel cestino di parmigiano, gommoso e amaro. D’obbligo mangiarla con le mani.

  4. Coratella con carciofi. Due grandi classici della cucina romanesca si incontrano in un piatto da mangiare rigorosamente con le mani: maritozzo coratella e carciofi. A proporlo a ristorante è Edoardo Meuti, giovane chef di Santo, ristorante-cocktail bar contemporaneo nascosto tra le vie di Trastevere. I sapori e i procedimenti di cottura del maritozzo e della coratella rimangono invariati così come il gusto: cambia esclusivamente l’aspetto e le modalità di assaggio. Fegato, cuore, milza, polmoni, reni, sono cotti separatamente per poi essere uniti e ridotti a paté. Il maritozzo, invece, è preparato giornalmente dalla cucina a partire da farina Manitoba e fatto lievitare 4 ore. A dare la parte croccante ci pensano delle lamelle di carciofo fritto.

  5. Abbacchio con i carciofi. Giovanni Milana, chef e proprietario del ristorante Sora Maria e Arcangelo di Olevano Romano propone da ormai parecchi anni ai suoi ospiti un mini burger di abbacchio Romano IGP con pane ai tre cereali, cicoria ripassata e maionese al pecorino con chips di carciofi. Un fast food de’ noantri, saporito e complesso. La carne tipica della Pasqua è rielaborata sotto forma di burger, scottato in padella e arricchito dei contorni classici di una trattoria popolare. La bontà del piatto sta soprattutto nello spessore della carne e nella sua cottura che ne mantiene intatti i succhi.

  6. Picchiapò. A Tivoli, il ventottenne Simone Mancini, chef del ristorante-pizzeria La Fornarina, offre ai suoi ospiti una divertente versione del bollito alla picchiapò da mangiare in un solo boccone. Lui lo definisce Rocher di Picchiapò, ossia una polpetta di carne di manzo sfilacciata cucinata come un classico picchiapò con pomodoro e cipolla stufata, impanata nelle nocciole tostate in granella. Alla base del piatto c’è una crema di carciofi e una fogliolina di mentuccia a rinfrescare.

  7. Coda alla vaccinara. La coda alla vaccinara è uno di quei secondi piatti che più di tutti si presta a essere ridotto in polpetta e fritto. Il primo ad avere l’idea, più di 10 anni fa, è stato Adriano Baldassarre, chef del ristorante stellato Tordomatto di Roma. Adriano trasforma questo colosso della tradizione romana in cubi, fritti e dorati. La panatura esterna è sottile e poco invadente e lascia trapelare un ripieno umido e saporito di carne sfilacciata arricchita dei classici odori del soffritto di partenza. Ad arricchire il tutto c’è la salsa ottenuta dal fondo di cottura della carne e del sedano croccante. Un’altra valida alternativa da mangiare con le mani, in pochi morsi, di coda alla vaccinara, ce la offre Sarah Cicolini, chef della trattoria SantoPalato di Roma. Saltuariamente nella lavagna appesa alla parete è disponibile un’imponente polpetta di coda alla vaccinara guarnita con una spolverizzata di polvere di cacao come esige la tradizione (in foto).

  8. Trippa alla romana. Da sgranocchiare come fosse una patatina intinta in un chutney speziato ai pomodori datterini, menta e pecorino, la trippa di Francesca Barreca e Marco Baccanelli, osti e cuochi ora itineranti e un tempo stabili nel quartiere Centocelle di Roma da Mazzo, è il cibo romano da passeggio per eccellenza. Mangiare la trippa con le mani è impresa impossibile per consistenza tanto sua quanto del sugo in cui è immersa adatto esclusivamente ad una scarpetta. In questa veste del tutto nuova le mani sono le vere protagoniste: la trippa è tagliata a strisce, bagnata nell’acqua, asciugata, passata nella semola e fritta in olio profondo fino a diventare estremamente croccante. Si serve con una ciotola di chutney – composta di pomodorini datterini insaporiti con peperoncino, aceto e menta e pecorino grattugiato.

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