Rece Rock: Glass Hostaria a Roma
Il nostro Alex Giuliani è stato da Cristina Bowerman al Glass Hostaria di Roma: ecco com’è andata la sua prima cena stellata.
Sapevo che prima o poi Agrodolce mi avrebbe mandato in un ristorante stellato per farmi fare la figura del babbano. Io, che sono un novizio in questo campo. Io, che fino a ieri credevo che la stella Michelin fosse assegnata ai gommisti coi migliori calendari di donne nude appesi sui muri delle loro officine. la mia prima cena stellata da glass hostaria a roma Io, che sono un incallito avventore di trattorie dove la cucina della Sora Lella è rivisitata al massimo in chiave Parodi. Si, io sono finito proprio dalla chef di fama internazionale Cristina Bowerman, nel suo locale Glass Hostaria (a Vicolo de Cinque, nel cuore di Trastevere a Roma). Per chi non lo sapesse (e io, ovviamente, non lo sapevo), la Bowerman è una chef pluripremiata e uno dei massimi esponenti nazionali dell’alta cucina. Leggi il suo curriculum spaventosamente vario e la vedresti bene a fare qualsiasi cosa. Tranne il ministro ovviamente, perché li basta aver fatto il bibitaro un paio di mesi allo stadio.
– Affronto questa mia ennesima prima volta in campo gastronomico con l’ansia e la preoccupazione di chi si sta preparando a una imminente carestia, accompagnato da sfottò e commenti prevenuti di alcuni amici che posso sintetizzare in una frase: “In quei ristoranti magni bene ma magni poco!” Sono turbato da questi preconcetti ma rinfrancato da Google Maps: c’è un kebabbaro a pochi metri di distanza, nel caso dovessi avere ancora fame. Un mio amico ha pure aggiunto sarcasticamente: “Vestito così non te fanno manco entrà!”. Nel dubbio, dismetto la maglia dei Metallica e i bermuda ascellari per indossare un’anonima t-shirt nera e dei pantaloni slim-fit, talmente stretti in vita che ho rischiato più volte di battere il record di apnea di Enzo Maiorca. Inoltre la giornata è tremendamente afosa e che c’è lo sciopero dei mezzi pubblici (lo so, non c’entra niente ma volevo aggiungere ulteriore drammaticità al racconto).
– Arrivo al ristorante in leggero anticipo e, nell’attesa, leggo il menu con la stessa dimestichezza con cui leggerei il manuale di istruzioni in russo della Sojuz. Non so assolutamente cosa siano i vari koji, tobiko, sumac, babaganoush, bok choi, kimchi, labneh. Poi l’illuminazione: vuoi vedere che questo è il menu per stranieri? Ovviamente no.
– L’ambiente ha un arredamento di design moderno ed elegante. L’esatto contrario di me che sono passato di moda, trasandato e pure catorcio. Il pavimento è in plexiglass trasparente e prego tutti gli dei che sia in grado di sostenere i miei 100 chili (brillantemente superati grazie ad Agrodolce).
– Il personale di sala ci accoglie in maniera formale e talmente cortese che guardo con sospetto la ragazza che sposta la sedia per farmi accomodare. Abbiate pietà, dove mangio di solito io la sedia te la spostano solo per farti uno scherzo e farti cadere come un sacco di calcinacci. Viene subito a salutarci la chef Bowerman, affabile, simpatica e con la capacità di spiegare le cose in modo comprensibile persino a un primate come me.
– Il cocktail Americano, che poi si chiama Milano-Torino, di benvenuto fa trasalire il Gagarin che ho tatuato sul braccio, ma la Guerra Fredda è finita da un pezzo e allora tracanno con gusto cercando di non accecarmi con l’immancabile stecchino con i frutti.
– Ogni pietanza è accompagnata da una dettagliata descrizione degli ingredienti che io, con un efficace mix di ignoranza e Alzheimer galoppante, dimentico nel giro di pochi secondi. Le portate che arrivano sono capolavori dal punto di vista estetico e le guardo come le opere d’arte futuriste di Gino Severini. Cioè senza capirle e, in questo caso, senza sapere come mangiarle. Mi sento come Fantozzi alla cena della Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare quando si approccia al tordo. Con sagacia, aspetto che gli altri inizino a mangiare per imitare i loro movimenti.
– L’aperitivo inizia con una cialda di tapioca (spesso citata dal Conte Mascetti nelle sue supercazzole) alla paprika dolce, semi di sesamo con mousse di avocado e da un gambero rosso (uno) in ceviche servito su una fetta di lime. La cameriera, cogliendo al volo la mia incompetenza e la mia fame da pesce pulitore, sottolinea che la fetta di lime non va mangiata.
– Arriva poi una squisita tartare di filetto di manzo inserita tra due dischetti croccanti e bruciacchiati. Ricordatevelo sempre: in un ristorante stellato, il cibo è volutamente bruciacchiato. Dove invece mangio solitamente io, il cibo è involontariamente bruciacchiato per dimenticanza e lo rimandi indietro. Le porzioni sono mignon e ripenso alla frase “In quei ristoranti magni bene ma magni poco”. Ma resto ottimista: il kebabbaro dista solo 28 metri da qui.
– La preoccupazione passa quando arriva il piccione con frutti rossi, burro di arachidi e brodo speziato (che io avevo scambiato per uno shot di alcol). Una cosa divina! E una certezza: per riconoscenza, non caccerò mai più quei dannati pennuti dal mio balcone.
– Con la lingua di vitella, scampo, salsa di ceci e Grana Padano inizio a far l’amore coi sapori. Anzi no, limonare è il verbo più appropriato in questo caso. A ogni portata ci cambiano le posate e i bicchieri. Dove mangio di solito io non te le cambiano neanche se ti cadono sul pavimento, ma fingo di non esserne stupito. Il mio pensiero e la mia solidarietà vanno al lavapiatti che a fine serata sarà stanco come un conducente di risciò che porta a spasso Adinolfi.
– Ci propongono tre primi: le linguine al burro di miso, ostriche e cipolla rossa; i tortelli ripieni di granchio, cocco al curry verde e sfere di mela verde e gli gnocchetti con ricci di mare, bagnacauda di aglio nero e tartufo. Improvvisamente inizio a capire cosa significhi provare l’alta cucina: è come se, dopo una vita di vacanze estive a Ladispoli, ti facessero fare un rapido giro alle Seychelles, Hawaii e Belize per poi abbandonarti al casello di Maccarese. In tutto questo, cerco di darmi un tono e faccio uno sforzo inaudito per non fare la scarpetta nella scodella degli gnocchetti.
– Quando è portato via il piatto, se resta qualche briciola sul tavolo (nel mio caso sempre, visto che mangio come un facocero) passa una ragazza con una spazzola e pulisce tutto. Anche qui fingo di non esserne stupito, ma temo che a fine serata passerà qualcuno a lavarmi i denti e ad aiutarmi col filo interdentale. Ogni portata ha la sua particolare stoviglia a tema. C’è quella giapponese, c’è quella thailandese e c’è quella che sembra rotta. Ricordatevelo sempre: in un ristorante stellato, la stoviglia sembra rotta. Dove invece mangio solitamente io, la stoviglia è proprio rotta. O, se ti dice bene, sbeccata.
– Per secondo arriva l’agnello e baba ganoush con cubo di melanzana arrostita, sumac, melassa di melograno, stilton. Conosco appena la metà degli ingredienti citati ma lo eleggo come piatto della serata: favoloso! Solo 6 ore più tardi, grazie a Google, ho capito cosa ho mangiato.
– Adoro anche l’anatra frollata alla senape, ciliegie, dragoncello e bok-choi. Ora non starò a spiegarvi le incredibili proprietà del bok-choi, perché non le so nemmeno io, ma questo piatto vi farà guardare i cartoni animati Looney Tunes con occhi diversi e vi farà sperare che Taddeo finalmente riesca a cucinare Daffy Duck.
– Durante il pasto abbiamo degustato ben sette vini. Inutile elencarli. Un po’ come i sette nani o i sette Re di Roma, alla fine te ne dimentichi sempre uno.
– Dopo uno squisito dolce allo zenzero e la vodka (servita da una bottiglia di forma paurosamente fallica) ci si intrattiene a chiacchierare con la chef Bowerman e a farle i più sinceri complimenti. Con la sua cucina e con il suo approccio molto easy ha conquistato tutta la mia stima (vabbè, non è esattamente un attestato di cui andare fieri, mi rendo conto). Comunque ho già prenotato dal parrucchiere per farmi i capelli fucsia come lei.
– Tornando a casa, direzione casello Maccarese, ripenso di nuovo alla frase “In quei ristoranti magni bene ma magni poco!” E lo faccio mentre cerco di guardarmi la punta dei piedi senza riuscirci. Sono davvero sazio, ma stavolta più di qualità che di quantità. E, giuro, sono passato davanti al kebabbaro senza degnarlo di uno sguardo.