Chef stranieri in Italia: Yoji Tokuyoshi
Yoji Tokuyoshi ha scelto l’Italia giovanissimo: dalla corte di Massimo Bottura è giunto 4 anni fa a Milano per aprire il suo ristorante, Tokuyoshi.
“Ho rischiato due volte di chiudere in questi anni ma ho salvato tutto e ora da novembre rinnovo il mio locale”. Yoji Tokuyoshi riassume così, con la sua consueta semplicità, questi primi 4 anni del suo Tokuyoshi in via S. Calocero 3, a Milano, a due passi dalla basilica di Sant’Ambrogio. La stella arrivata quasi subito, dopo pochi mesi dall’apertura nel dicembre 2015, ha scelto l'Italia giovanissimo, folgorato dai nostri sapori ha premiato l’avventura imprenditoriale di questo chef formatosi all’Osteria Francescana, per 9 anni sous-chef di Massimo Bottura, ma il successo attuale è passato anche attraverso momenti di difficoltà per mettere a punto il suo locale, far capire alla clientela la sua doppia identità – giapponese e italiana insieme, come si sente lui stesso – che dopo una formazione nel suo Paese d’origine ha scelto l’Italia giovanissimo, folgorato dai nostri sapori. Una messa a punto che oggi aderisce perfettamente al suo percorso professionale e di vita. E ora la strada è finalmente segnata, anzi: a novembre lo chef rilancia con l’inizio di 3 mesi di lavori per ampliare il locale e includere gli spazi di un negozio accanto, passando a 40 coperti dagli attuali 30. Il bancone si allunga, va via il bar in fondo e la cucina sarà a vista. Si creerà anche lo spazio per un privé e un salotto d’attesa dove bere qualcosa.
Come è cambiato il tuo ristorante in questi 4 anni?
Quando ho aperto, molti clienti dicevano che la mia non era cucina italiana, non capivano cosa facessi, io giapponese in cucina. L’arrivo della stella Michelin nel dicembre del 2015 ha cambiato la clientela: sono arrivati clienti più consapevoli, che in Giappone erano andati, che capivano cosa stavo facendo. Ma ancora è stato necessario spiegare meglio i piatti, usare meno espressioni giapponesi e semplificare. Gli italiani erano pronti, forse siamo stati noi a non aver spiegato al meglio i nostri piatti all’inizio. Certamente Milano è più aperta di altre città ma ho cambiato diverse cose. Insieme al team ho deciso di aumentare il prezzo del menu e proporne solo uno, anziché i tre iniziali, tenendo solo 4 piatti alla carta. Ho dovuto anche cambiare sommelier e restaurant manager. Ora siamo 10 in cucina e 3 in sala, il numero giusto per lavorare bene.
Come convivono l’Italia e il Giappone nei tuoi piatti?
Le tradizioni italiana e giapponese sono simili, basate sugli ingredienti, e così io anche nel menu ho semplificato, l’ho reso più essenziale. Uso ingredienti italiani e sono loro a dettare le regole, dalle loro caratteristiche deriva la tecnica che uso per esaltarli al meglio, che sia italiana o giapponese. Mi piace che qui da voi la carne o il pesce ti arrivino sempre diversi, magari imperfetti: la sfida è proprio prepararli al meglio. Un esempio? La rana pescatrice. Prepararla è un lavoro lungo e solo con la tecnica giapponese riesco a cucinarne il fegato e togliere l’amaro. Sul gusto nel piatto ricerco l’umami, per me è molto importante. Nella cucina italiana c’è in alcune combinazioni anche se all’inizio non era chiamato così. Per esempio con cime di rapa e acciughe, pasta con parmigiano, vongole con prezzemolo. Giochiamo anche con l’abbinare carne e pesce insieme: facciamo l’anatra con le capesante cotta con burro fermentato oppure abbiniamo tartare di ricciola e fassona con topping di caviale. Tra i piatti che continuano a rappresentarmi c’è il mio Quadro di pesce, certamente, ma proponiamo adesso anche altre carni, i cui animali sono disegnati sui piatti da portata, come l’anatra, la faraona o il cervo.
E come ricerchi gli ingredienti italiani che usi?
La ricerca degli ingredienti e la raccolta di tecniche e ricette la faccio girando l’Italia. Mi piace molto. Per me km zero vuol dire tutta l’Italia, cerco in tutto il vostro Paese. Da questa esigenza è nato il progetto 4 Hands with Nonna. Un vero tour che faccio insieme al team. Il primo giorno impariamo un piatto realizzato dalle nonne, il giorno dopo lo interpretiamo. Per esempio siamo andati in Maremma a imparare l’acqua cotta, piatto povero della tradizione. L’abbiamo rifatta come una zuppa concentrata e filtrata da bere. È un modo per sperimentare, non è detto che poi questo entri nel menu. L’idea mi è venuta perché se c’è una cosa che ho imparato in Italia, è quanto siano importanti le nonne in cucina. Non è la stessa cosa in Giappone, non c’è la stessa cultura della famiglia che c’è qui: tutti insieme intorno alla tavola.