Home Chef Giovani chef e tradizione: Marco Martini

Giovani chef e tradizione: Marco Martini

di Andrea Febo • Pubblicato 26 Giugno 2020 Aggiornato 18 Ottobre 2021 11:37

Uno chef giovane, caparbio e competitivo che ha raggiunto ottimi risultati, ma non smette di volersi migliorare: la storia di Marco Martini.

Appena prima della pandemia ho intervistato Marco Martini: riascoltando la traccia ho (ri)scoperto la preziosità di una testimonianza vera che oggi, dopo questi mesi di blocco totale e in piena fase di una difficile ripresa, se possibile acquisisce ancora più valore. un'intervista realizzata prima del lockdown e della pandemia Marco Martini lo intervisti senza cercare una notizia, perché lui stesso è una notizia. Quasi 20 anni di ristorazione a tappe bruciate, passati in crescita continua tra i più grandi che oggi ancora annoveriamo e qualche nome che non c’è più, come Gualtiero Marchesi. Romano, classe 1985, dal 2016 Marco Martini guida il MarcoMartiniRestaurant* di Roma, una location informale tra lo stile liberty della terrazza adibita a cocktail bar e la luce naturale del ristorante che sembra una serra.

Dopo la Stella conquistata con Colonna, nel 2013 il suo primo progetto personale, Stazione di Posta, dove l’anno successivo conquista la sua prima stella Michelin. Una rottura degli schemi che in un anno si è ripetuta quando lasciando Stazione di Posta, entro pochi mesi, ha inaugurato il continuo naturale della sua professione al The Corner riconquistando l’ambito riconoscimento della rossa francese. Il più giovane che stellato d’Italia nel 2014, anno nel quale diventa padre e vince Emergente Centro.

Tre stelle Michelin, due nello stesso anno, in tre ristoranti diversi. Qui ti sei fermato o hai altro in programma?
Qui sto bene, non è il ristorante della mia vita perché lo vorrei diversamente, ma sto bene. Sono 15 anni che lavoro dalla mattina alle 9 alla sera 23 senza mai fermarmi. Vado in vacanza solo una settimana ad agosto. Tanti sacrifici, tantissime rinunce ogni giorno. Ci ho sempre messo tanta fatica e una passione smisurata ovunque sono stato e qui mi sto divertendo. Non so cosa accadrà in futuro, ma per ora sono concentrato sul The Corner. Le Stelle sono un grande riconoscimento e credo che nessuno abbia avuto il percorso che ho fatto io, ma è difficile scrivere di me.

Perché lo pensi?
Perché ho imparato a diffidare del giornalismo gastronomico. Non di tutto, attenzione, ma non lo vedo equilibrato. Io sono nato con Davide Bonilli, quando ho cucinato per il compleanno di Gualtiero Marchesi insieme a Cracco, Crippa e Knamm, io avevo 24 anni ed esistevano solo Il Papero Giallo e Porzioni Cremona. Sicuramente ho bruciato le tappe, ma è dal 2005 che lavoro dalla mattina alla sera con tutte le rinunce che, ripeto, possono appartenere a un ragazzo e nonostante tutto quello che proprio un ragazzo vive. Gli amici, le sbornie, le delusioni amorose, le difficoltà personali, eppure ero sempre lì la mattina con la giacca pulita e la barba fatta. Oggi se vedo dei giovanissimi entrare nel mio ristorante e criticare la mia cucina, non ci sto. Se io sento dire da Paolo Marchi che il Negativo di carbonara è stato inventato nel 2001, quando io sono nato proprio inventando il negativo di carbonara a 24 anni, non ci sto. Sono tante le cose che leggo e che non sono vere. Io invece sono sempre stato vero.

Però serve la comunicazione nel settore ristorativo?
Certo, se fatta bene serve assolutamente. Se il progetto è importante, se c’è umiltà. L’informazione è come un raviolo: se è fatto bene funziona, ma siamo una categoria che a fronte di una vetrina continua è costantemente giudicata. Però non è possibile che il lavoro di una squadra di professionisti che s’impegnano dodici ore al giorno sia messo alla critica di ragazzini di vent’anni che la cucina non sanno neanche cosa sia. Possono raccontare storie, non entrare nel merito di un mondo incredibilmente più complesso di un semplice riscontro nel gusto personale. Ci vuole competenza ed esperienza, per confrontarsi in maniera costruttiva con altrettanta competenza ed esperienza.

La tua cucina com’è?
La mia cucina è soprattutto identità e sostanza. Non è cucina che segue le mode, rimango centrato sulla tradizione romana e la evolvo con la mia visione di sapori pieni e gusti intensi. La mia è una tavola evocativa e nei miei piatti ci sono sempre tre ingredienti, puliti e immediatamente riconoscibili. Sono legato alla romanità ed è la base dalla quale parto sempre senza mai smettere di crescere. Non si finisce mai di imparare e ancora oggi ho la fortuna di confrontarmi sia umanamente che professionalmente con dei grandi maestri che seguo perché migliori di me, come Crippa o Uliassi. Un grande chef deve essere prima di tutto un grande uomo e questo l’ho capito proprio grazie al confronto che ho avuto la fortuna di avere con loro fin da giovanissimo. Cerco comunque sempre di prendere il buono da tutti, separandolo dal cattivo.

E come le scegli le cose belle?
Molto spesso sbagliando. Commetti degli errori e impari. Se cinque anni fa, per esempio, in un’intervista sparavo a zero, oggi cerco di contenermi. L’importante è cercare di non fare lo stesso sbaglio troppe volte e migliorarsi. Se scegli qualcosa del buono c’è sempre, se poi lo sbagli forse è proprio perché puoi migliorare.

C’è un piatto che ti rappresenta e che potresti migliorare?
Questa è la mia vita e gli dedico tutto, cambio circa trenta piatti l’anno e li suddivido in due macro stagioni. Sono legato a ogni singolo piatto che ho pensato e proposto in questi quindici anni, ma ce n’è uno al quale sono legato affettivamente, il Raviolo al vapore con ripieno di pollo alla cacciatora e brodo di patate, fatto all’Open Colonna nel 2009, anno in cui ho cucinato per i 100 anni di Rita Levi Montalcini.

Rimpianti ne hai?
No. Forse all’inizio dovevo seguire l’istinto e non aprire un ristorante a Roma, ma a Milano o all’estero, però è andata bene. Adoro Roma, i romani e la cucina romana, ma questa città mi sembra ancora un paesone dove aprono troppe cucine senza grande identità, un po’ tutte uguali nello stile e dove alla fine ti perdi e non sai dove andare. Chi sta lì fuori al massimo segue il fiume delle cene stampa che poi, quando si esaurisce, manda in tilt i ragazzi che non lavorano più e scompaiono nelle foto dei giornali e dei social. Non è così per tutti, ovvio, ma per molti sì e secondo me il cuoco deve trovare la sua massima realizzazione dietro un tagliere con il ristorante pieno. Se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto, compreso non far entrare Colonna in cucina per 2 anni. Da lui ho imparato davvero tanto, ma rifarei tutto.

Chi pensi invece di dover ringraziare?
Sono stato fortunato innanzi tutto, ma sicuramente la mia famiglia, che non mi ha mai contrastato e nella quale alla fine sono stato sempre assente. Io non ci sono mai. A oggi non riposo da tre settimane e mia moglie Paola non me lo fa pesare, anzi mi da la carica ogni giorno. Poi devo ringraziare tutti, compreso me stesso per averci creduto, da Cannavacciuolo con il quale ti ritrovi da ragazzo a parlare di F24 dietro le cucine delle cene Tre Forchette del gambero insieme ad Alajmo e ad altri grandi. Poi penso a Masterchef che è stata l’esperienza più bella degli ultimi 5 anni e che mi ha cercato per il mio stile.

Che momento viviamo nella ristorazione oggi?
Sono partito da Colleferro con 20 euro in tasca e le giacche pulite che mi stirò mia madre. Per me ha tutto un sapore diverso. Oggi siamo in un momento umano, dove bisognerebbe dare un valore più sentito alle cose e cercarne la reale sostanza, andando veramente oltre la sola apparenza.

Sei arrabbiato?
No, sono sempre stato così, questo è il mio temperamento ed è quello che da quei venti euro in tasca mi ha portato qui, nel centro di Roma con 1.200 mq di palazzo, ad avere 18 dipendenti regolarmente stipendiati dopo aver conquistato tre Stelle Michelin in tre ristoranti. Sulla sostanza mi batto con fermezza, da sempre.

Come lo vedi il futuro?
Se penso che sono giovane e che devo cucinare per altri trent’anni, a questi livelli, credo di non farcela. Un po’ mi spaventa, soprattutto perché ho una figlia. È un lavoro sacrificante, ho la fortuna di avere dei collaboratori validi, ma non lo so se si può fare questo lavoro a questi ritmi per tutta la vita. Vedo mio padre dopo quasi quarant’anni di pendolarismo e mi spaventa. Bella domanda… non lo so, ma spero di farcela ancora.

Caparbio, granitico, competitivo. Questa l’indole di uno chef che ha imparato nella sua vita professionale a crescere continuamente attraverso il confronto anche duro, ma sempre corretto. Un percorso, quello di Marco Martini, importante e unico nel suo insieme e le sue parole, prese in prestito prima di una pandemia globale, hanno un valore ancora più grande nell’essergli restituite.