Home Bevande Il ghiaccio per i cocktail non è tutto uguale: parola di bartender

Il ghiaccio per i cocktail non è tutto uguale: parola di bartender

di Carlotta Mariani • Pubblicato 3 Luglio 2020 Aggiornato 19 Ottobre 2021 16:24

Il ghiaccio è un ingrediente a tutti gli effetti. Ecco che cosa ci ha raccontato Francesco Bonazzi, bartender al Mag Café di Milano.

Quando si beve un cocktail in qualche locale o lo si prepara in casa spesso e volentieri non consideriamo l’importanza di un elemento: il ghiaccio. Studiamo gli ingredienti, le dosi. il ghiaccio per i cocktail va scelto accuratamente come un ingrediente A volte facciamo attenzione al tipo di bicchiere in cui servire il nostro drink. Eppure c’è un altro aspetto che deve essere considerato. Quei cubetti, per alcuni fastidiosi, ma fondamentali per un risultato finale piacevole ed equilibrato. Non solo: ne esistono tipi diversi con funzioni e tradizioni diverse. E abbiamo chiesto a Francesco Bonazzi, bartender al Mag Café di Milano, di raccontarci qualcosa di più sul magico mondo del ghiaccio nei cocktail.

A che cosa serve il ghiaccio nei cocktail?
Il ghiaccio è a tutti gli effetti un ingrediente. Diluisce, quindi permette di utilizzare distillati a gradazioni più alte rendendoli bevibili e di aprire i gusti in mondo diverso.

È sbagliato quindi chiedere un cocktail con poco o senza ghiaccio?
Ci sono dei cocktail, come il Negroni, che possono passare nel ghiaccio, avere una loro diluizione e apertura dei gusti e poi essere filtrati in una coppetta presentandosi senza ghiaccio. Chi invece ne chiede poco fa tecnicamente un errore, perché pochi cubetti non mantengono la temperatura all’interno del bicchiere: il ghiaccio si scioglierà più velocemente e si otterrà un drink caldo e con una percezione alcolica più alta. In più, chi chiede poco ghiaccio per sentire una bevanda più forte, avrà l’effetto opposto: andando a sciogliersi velocemente, si otterrà una parte di acqua abbastanza importante.

Il ghiaccio è tutto uguale?
Come per i distillati, ci sono moltissime qualità. Tante volte capita di bere un drink con il classico cubetto forato in mezzo per il lungo. In questo caso la superficie di contatto tra liquido e ghiaccio è superiore e quindi avrò di nuovo uno scioglimento veloce. Il ghiaccio deve essere il meno possibile bianco e il più possibile trasparente. Questo vuol dire che ha pochi sali minerali all’interno e quindi manterrà meglio il freddo. E non deve fare l’effetto granita ossia non deve sbriciolarsi appena lo tocchi perché, di nuovo, ci sarà una maggior superficie di contatto liquido-ghiaccio e quindi troppa diluizione. Oggi poi c’è tutto il trend del cubo unico di ghiaccio, piuttosto che lo stick o le sfere, con i drink serviti con l’effetto della trasparenza. Questi ghiacci non danno diluizione ma mantengono solo la temperatura e danno un effetto scenico.

Quanti tipi ne esistono?
Principalmente ce ne sono 3: quello vuoto all’interno, quello tritato e il cubo di ghiaccio grosso. Gli altri sono declinazioni di questi tre. Oggi poi le macchine sono in grado di farne di tantissime forme e dimensioni. Partono da 3×3 cm fino ad arrivare a cubi di 8×8 cm. Poi se si vuole una qualità di ghiaccio più cristallina, secondo il trend verso cui si sta andando, che prevede un bicchiere che sembra senza ghiaccio, si tratta di blocchi unici di ghiaccio che sono tagliati.

E come si usano nei diversi cocktail?
Dobbiamo dire che ogni ghiaccio ha il suo drink per un discorso di diluizione ma anche di origine. Per esempio, siamo abituati a vedere la caipirinha o il mojito serviti con il ghiaccio tritato. Questo è anche un discorso di dove sono stati inventati quei cocktail perché in certi Paesi, con temperature diverse dalle nostre, il ghiaccio tritato dà una diluizione maggiore. Ci sono poi drink che prevedono il ghiaccio tritato in Italia ma sono stati degli errori: i barman italiani, traducendo dall’inglese, trovavano smashed ice o cracked ice. In realtà, semplicemente i barman in Inghilterra erano abituati ad avere il cubo unico di ghiaccio sul banco, lo spaccavano e creavano quello che tecnicamente si chiama chunk, un pezzo di ghiaccio che era poi messo nel bicchiere. Nella traduzione il pezzo rotto è diventato ghiaccio rotto e quindi ghiaccio tritato.

Dipende quindi dalla storia del cocktail ma anche da un discorso di diluizione. Ci puoi fare un esempio?
Se ho un Americano, in cui la gradazione alcolica degli ingredienti di base si aggira tra i 16 e i 25 gradi, e uso il ghiaccio tritato, sto servendo al mio cliente un bicchiere d’acqua con un po’ di bitter e di vermouth all’interno. Se invece sto preparando una caipirinha a base di cachaça, che è superiore ai 40 gradi, a quel punto questa diluizione aggiuntiva dà una diversa percezione alcolica per cui è più semplice bere quel drink. Nel mojito, dove c’è della soda, il ghiaccio tritato dà semplicemente un eccesso di diluizione.

E il ghiaccio secco?
Non ha niente a che vedere con il raffreddamento, è scenico. Ci sono tanti barman, per esempio Dario Comini del Nottingham Forest a Milano, che lo utilizzano in modo molto tecnico. In realtà la grande maggioranza lo usa solo per fare il classico effetto scenico del fumo e in quei casi, non sapendo trattarlo correttamente, può diventare pericoloso. Se non ci sono dei filtri tra il ghiaccio secco e la bocca, il cliente potrebbe ingerire un cubetto di ghiaccio secco ed è dannoso.