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I racconti del professore: Taki Off a Roma

di Alfonso Isinelli

Taki Off a Roma è un esperimento culinario di Massimo Viglietti e Yukari Vitti: siamo stati a cena al ristorante per provare questa esperienza.

Cosa unisce Massimo Viglietti, uno dei più eccentrici (proprio nel senso di fuori dal centro) cuochi del panorama tricolore e Yukari Vitti, cultrice delle sue radici giapponesi, in primis quelle gustative della natia Kyoto e patron dello storico ristorante nipponico Taki a due passi da piazza Cavour a Roma? Il progetto, ora declinato in Taki Off, partito nell’estate scorsa come Taki Lab, costola della casa madre, nato come prodotto dell’unione di due culture gastronomiche: quella del Levante nipponico e del Ponente ligure, terra natia di Viglietti.

Una fusione in senso lato, visto che Viglietti a confini, tradizioni, materie si è sempre approcciato con spirito personale e anarchico nelle sue precedenti esperienze sia al Palma di Alassio – una cucina eretica, rispettosa nella classicità, spiazzante dove si univano sgombro e tabacco, melanzane e bottarga – che nella precedente esperienza capitolina da Achilli al Parlamento. Qui, per dirne banalmente solo una, la tradizione romana della cacio e pepe era servita non al piatto, ma sulla mano. Una cucina eretica, rispettosa nella classicità, irriverente nel suo spiazzante svolgersi, apprezzata da molti, discussa da altri, tanto da provocare rotture forti, come quella con Alassio, abbandonata quasi da eretico. Proprio sedendo alla sua tavola romana la Vitti, restò colpita e affascinata dal tocco e dalla personalità di Viglietti. E gli propose, insieme al marito e socio Onorio, selezionatore e conoscitore come pochi di prodotti nipponici, di fare qualcosa insieme.

Si è partiti, come detto, l’estate scorsa con il Lab: tavolo unico, si mangia quello che propone lo chef. Musica da David Sylvian ai Joy Division, sparata ad alto volume per evitare distrazioni da chiacchiericcio dei commensali. Un’esperienza collettiva e concentrata, che avrebbe dovuto evolversi in un Taki Off con cucina a vista, clienti al banco a contornarla, pochissimi tavoli. Le questioni di igiene e distanziamento legate alla pandemia hanno interrotto questo percorso facendolo virare, per il momento, in un classico ristorante, sobrio ed essenziale nello stile. Aperto attualmente dalle 12,30 alle 17,30, propone alla carta singole pietanze, senza la normale divisione tra primi antipasti e secondi, ad un prezzo tra i 10 e i 20 euro cadauna; una proposta degustativa La domenica andando alla messa (proposta al momento anche nei giorni feriali) a 120 euro, 150 con abbinamenti.

La musica continua a esserci, protagonista; il servizio è calibrato e gentile. Si inizia dalla fine: un bicchiere di moscato, cioccolato bianco al prosecco, lo scoppiettino (citazione del cyberegg scabiniano) di tarte au citron, il palato si fodera di dolcezza, prima di essere testato dal tris di Nigiri, classico di salmone, seguito da totano, olive e cioccolato bianco ed orata, cacio e pepe. Ora si è pronti per partire: il riso giapponese fa da base a delle cipolle con lavanda con sopra una mousse di quinto quarto, in un bicchiere a parte il tuorlo d’uovo è innaffiato da un’acqua di pomodoro, da miscelare e bere dopo ogni boccone. Acidità, grassezza, dolcezza, profumi, riso a legare il tutto. Inizio folgorante, che fa diventare solo piacevole la densa zuppa di fagioli e castagne servita con un gambero in tempura.

Il wagyu, rigorosamente certificato, nel Viglietti style fa da grigliato, grasso supporto a dolcezze e sapidità, dalla bottarga al caviale. Quasi una provocazione sull’uso delle materie prime nobili, rovesciata nel piatto successivo. L’anguilla, che arriva già marinata e laccata dal Sol Levante viene avvolta in una foglia di lattuga, servita con una crema di patate alla Chartreuse (due in verità differenti per grado alcolico e intensità aromatiche) e una fettina di guanciale. Un grande piatto di assemblaggio, che Viglietti ha una grande mano anche in questa categoria.

A chiudere il salato capasanta e foie gras serviti in verticale in omologia di consistenza, composta di mele e ridotto di coca cola, tocco che si perpetua dalla stagione di Alassio, a sostituire classici fondi alcolici o di soia.

Si arriva al dolce, dove Mediterraneo e Ponente ligure prevalgono: il primo nella esplosiva melanzana (omaggio a Iaccarino e alla tradizione napoletana) con fondo di vitello al whisky, nocciole e ceci. La seconda nella più composta crema di maggiorana, olive candite e frolla, nascoste da una fresca insalata. Non fatevi mancare l’abbinamento con un caffè alla lampada, che può servirvi da compagno anche nell’ora della merenda. Una base alcolica, una aromatica: nel nostro caso calvados e tabacco, una fiammeggiata importante spenta dal caffè. Maigret si chiama, i tre ingredienti si fondono in bocca e ti ritrovi a riflettere, quasi da commissario gastronomico, sul percorso qui intrapreso, già ottimo, ma che si affinerà ulteriormente in tempi migliori di questi.

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  • Alberto Blasetti