Fritti dalle stelle su Prime Video: intervista a Marco Lombardi
Marco Lombardi, inventore della Cinegustologia, è il regista del cortometraggio Fritti delle stelle: l’abbiamo intervistato per voi.
Due atti, due domande. Tre canzoni, ironiche, inedite, che stravolgono note conosciute. Un totale di 26 minuti e 39 secondi per parlare degli chef stellati, di che fine abbiano fatto gli chef stellati, di cosa siano diventati gli chef stellati. Della loro spettacolarizzazione. Chiedendolo direttamente agli chef stellati. Fritti dalle stelle è il primo film da regista di Marco Lombardi. In una lista non esaustiva è tra le mille cose critico cinematografico ed enogastronomico, autore di programmi tv, penna per il Messaggero e il Gambero Rosso, insegnante di Cinema ed Enogastronomia all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli, inventore della Cinegustologia, scrittore di romanzi.
Proiettato fuori concorso al Bari International Film Festival, ora disponibile sulle piattaforme di Amazon Prime Video, Apple Tv, Google Play, questo minidocumentario, in una sorta di lunga vox, mette insieme interviste raccolte in 3 diverse occasioni di era pre-Covid, nel 2019: Identità Golose, a Milano, Le Strade della Mozzarella, a Paestum, Taste of Rome, nella capitale. In cui, mentre vanno i cooking show di Massimiliano Alajmo, Massimo Bottura, Moreno Cedroni, Carlo Cracco ed Enrico Crippa, arrivano le risposte di Francesco Apreda, Corrado Assenza, Heinz Beck, Cristina Bowerman, Roy Caceres, Alfonso Caputo, Caterina Ceraudo, Fabio Ciervo, Riccardo Di Giacinto, Alfonso Iaccarino, Antonia Klugmann, Edoardo Papa, Angelo Sabatelli, Marco Sacco, Francesco Sposito, Peppe Stanzione, Salvatore Tassa, Roberto Toro e Massimo Viglietti. Risposte a due sole domande: “che cosa ne pensi della spettacolarizzazione dell’alta cucina?” e “che cosa faresti se avessi una bacchetta magica“.
Non faremo spoiler e non vi diremo cosa ne è venuto fuori. Cosa tutti loro abbiano commentato, dichiarato, confessato, liberato. Dovrete guardare per scoprirlo. Ci sono alcune cose, però, che possiamo segnalare: che il risultato è canzonatorio, confuso e al tempo stesso lucido. Tanto quanto è confuso e lucido lo spaccato che vuole raccontare. Quell’alta cucina in cui oggi gli chef sono spettatori e protagonisti contemporaneamente, a volte perdendo in parte la bussola. E che si mostra confuso non per una costruzione, quanto, piuttosto, per una naturale dose di realtà, catturata nuda e cruda e resa, stilisticamente, in riprese quasi grezze non ripulite.
Marco, quando hai capito che c’era l’esigenza di porre questa domanda, ma soprattutto di far rispondere direttamente loro?
L’idea è nata da un mio senso di dispiacere. Noi siamo fortunati, possiamo parlare e raccontare cose bellissime sul cibo. E il vedere che quest’oggetto così bello ogni tanto venga messo in secondo piano, come strumento dello spettacolo, per seguire le regole dello spettacolo, mi dava malessere. Litigi, tradimento, competizione non sana vanno di pari passo con l’alta cucina soprattutto in tv. E visto che alcuni chef cavalcano questo genere, mentre altri lo subiscono, ho provato a chiedere quelli che non sono proprio dentro il teatrino mediatico, che ancora preferiscono stare in cucina, che cosa ne pensavano.
Sei andato proprio a cercare tra i nomi che non sono sotto i riflettori?
In tutta onestà non era cominciata così, si è indirizzata cammin facendo. Ho semplicemente iniziato ponendo questa domanda, poi mi sono reso conto che è capitato di scegliere chef che difficilmente sono visibili. Quando ero da Assenza, che mi ha detto che non guarda la tv (spoiler) mi son detto ok, il focus è su quelli che sono fuori, su quelli che ancora preferiscono stare in cucina.
Hai scelto di girare in 3 momenti in cui gli chef non erano a riposo.
Io volevo andare sul luogo del delitto. Insieme alla tv i festival sono uno dei maggiori palchi di spettacolarizzazione. Ero in quel luogo in mezzo a una della situazioni in cui lo spettacolo si poteva realizzare. È vero che poi si concentra su tv, ma poi si mostra anche lì. Ero in mezzo alla mia domanda. Solo Papa sono dovuto andare a cercarlo, conoscendolo, conoscendo il suo pensiero, sapevo che non l’avrei trovato.
Soprattutto alla seconda domanda, alcune risposte che ricevi sembrano quasi contraddittorie.
Nessuno di noi è fatto tutto d’un pezzo. Prendi per esempio la Klugmann: anche lei è andata a Masterchef, quindi si è fatta attrarre, per giusta, comprensibile curiosità. Poi se ne è tirata nuovamente fuori, perché non era nelle sue corde, perché non era quello che voleva fare, per le sue motivazioni, insomma. Credo sia perfettamente normale.
In Fritti dalle stelle parlano gli chef. Ma il cibo, a parte in rari momenti, non si vede mai.
Io il cibo non lo volevo vedere. Questi signori fanno quello di mestiere, ma nel momento in cui diventava quello spettacolo io non lo volevo mettere in scena. Volevo raccontarlo in un altro modo. È una cosa che ho voluto fortemente anche al montaggio, per me il cibo doveva rimanere comunque fuori. Fatti salvi un paio di momenti, come quello in cui ho mostrato Bottura nella sua quasi religiosa ostensione, che infatti ho musicato con l’Alleluja. Io volevo vedere e far vedere cosa c’è dietro.
A proposito di musiche, qui ci sono le tue tre canzoni: Fritti dalle stelle, che è poi il titolo, ma anche Probabilmente cominciò e Seconda foglia a destra. Testi inediti su basi conosciute.
È da quando sono ragazzino che scrivo canzoni, in maniera piuttosto amatoriale. Quando è successo che ho trovato i testi? Alla Suor Orsola (l’università di Napoli, ndr), quando dormo nella residenza universitaria ho l’abitudine di fumare un toscano passeggiando su e giù per i quartieri spagnoli. Fumo vado avanti e indietro penso. Una sera avevo già girato qualche sequenza a Identità Golose. Ho capito che dovevo mettermi in mezzo, non soltanto prendere in giro gli chef e la filiera che aveva ceduto. E l’ho fatto nello stile di Checco Zalone, scrivendo questi versi di satira trash, quella che stavo provando a raccontare per immagini. Ho scritto sul cellulare in questa passeggiata due delle tre canzoni, in piedi, fumando il sigaro. Dovevano contenere la parola stelle. Le ho trovate, le ho scritte. Prendono in giro il teatrino mediatico, ma sono anche un omaggio a cucina che non c’è più. Seconda foglia, nella chiosa finale, punta il dito contro di noi in maniera straironica. E dice che chi quella stella l’ha già rottamata è sicuramente meno nervoso.
Hai fatto solo due domande, la seconda la rivolgo anche a te: se avessi la bacchetta magica che faresti?
Io farei una siringata come fossero 4 booster – dico una cosa di banalità imbarazzante – di amore, di amor proprio e di amore per gli altri. Di voler bene alla vita e agli altri. Il cibo è probabilmente una delle più belle manifestazioni della bellezza del vivere. Dovrebbe essere automatico mettersi da parte, lasciare che siano gli altri a dire quanto è bello, quanto è buono. E poi regalare un atteggiamento nei confronti degli altri diverso. Troppe persone, anche tra gli chef, fanno voli pindarici sui problemi del mondo, poi però si mostrano scortesi o si negano. Cancellare questa contraddizione tra gli alti ideali che vengono (giustamente) professati e poi il quotidiano. Regalare più umiltà, mettersi da parte per qualcosa di più grande: la bellezza, la vita e la possibilità di condividere anche questa cosa, che è il cibo, che è molto bella. Con emozioni e sincerità.
Il cibo è sempre presente. Lo è anche nell’ultimo romanzo, già a partire dal titolo: Ti ho lasciato il minestrone in garage.
In tutte le cose che ho scritto il cibo rientra sempre in maniera prepotente. È quello semplice, che racconta un po’ il mio pensiero e la mia vita. Questa storia è nata qualche mese prima del primo lockdown, ma ha incredibilmente a che vedere con quello che è successo. Non c’è una pandemia, ma ci sono case che scompaiono e persone che si ritrovano senza casa. Che quando tornano la sera o la casa non c’è o c’è un altro edificio. Il che scatena una rivolta sociale in tante città del mondo e si invadono le case altrui. Io racconto di questi 12 ragazzi che entrano nella casa di una coppia che, dopo essersi lasciata, sta provando a tornare insieme e ricostruire. È un genere sul crinale del fantasy, dell’inspiegabile. In una situazione racconto della soffitta di questa casa, di un gatto, di un giorno in cui queste parole si mettono insieme e formano il titolo. E di questo minestrone che diventa un’altra entità, che appare e scompare.
Ma perché il minestrone?
Ho la fortuna di avere due suoceri, mia suocera soprattutto, che ci coccolano, me e mia moglie. Lavorando molto, lei spesso ci lascia cibi che ha cucinato, già pronti. Un giorno mi è arrivato un messaggio: “Ti ho lasciato il minestrone in garage“. Io stavo già scrivendo. Suonava così bene. Da lì poi il resto è venuto da solo. Soprattutto il finale, che in tutta umiltà mi piace molto. Il minestrone ritorna e mi commuove. È la summa di tutte le cose della vita, in cui le diversità ci sono, in cui gli ingredienti singoli rinunciano un po’ alla propria identità per sfaldarsi insieme, per creare un nuovo sapore totale. Che poi, il minestrone, io lo immagino sempre tiepido. Quel tepore è la tenerezza, lo stare insieme, tra tutte le persone. In maniera semplice.