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I racconti del professore: Podere Fontanelle

di Alfonso Isinelli • Pubblicato 14 Giugno 2022 Aggiornato 15 Giugno 2022 09:12

Il professore è stato a provare i tre ristoranti del Podere Fontanelle in Toscana, a Castelnuovo Berardenga: ecco come è andata.

Siamo fondati sulla bellezza. E la vera ricchezza del nostro paese: la ricchezza della storia, della cultura, dell’arte, del territorio, delle tradizioni. Il problema è che tendiamo a dimenticarcelo, a darlo per scontato: lo trascuriamo e rischiamo di perderlo. Non siamo più la meta turistica frequentata ed ambita, soprattutto. E basterebbe girare, a me è capitato di farlo recentemente, per i centri storici di grandi e piccole città, dove la filosofia è quella del brutto, del 9,99 euro tutto incluso, per attirare una clientela mordi e fuggi, che probabilmente dopo le vicende degli ultimi due anni, si ridurrà notevolmente. E non è solo questione di opulenza vs semplicità: si può e si deve investire sui vari livelli, ma rispettando sempre la bellezza. Perché investimento e rispetto del dintorno devono andare di pari passo. Un esempio vincente è quello del Podere Fontanelle in quel di Castelnuovo Berardenga nel cuore delle colline del Chianti senese, dove la bellezza è coltivata con cura meticolosità, amore e passione.

Il progetto nato dall’iniziativa della signorina Giuseppina Bolfo a partire dall’Hotel Le Fontanelle e dell’adiacente Villa del Mandorlo, nati nel 2006 e che ancora oggi vivono dell’occhio attento della signorina che, sia pur superati i novanta, non fa mancare tocco e giudizi. Il progetto, oggi, è portato avanti dal nipote Nicola Vercellotti e dalla compagna Phoebe Farolfi, che hanno chiuso il cerchio con la nuovissima Club House: belle camere, servizio wellness, piscina su un panorama incantato: ormai Fontanelle Estate è un vero e proprio borgo dell’accoglienza, dove la bellezza vive in simbiosi con la natura. C’è anche un’azienda vinicola da 100 ettari, si produce olio: cosa mancava?
Un progetto ristorativo importante ed è arrivato, affidato alle mani di Giuseppe Iannotti, quest’anno 2 stelle Michelin e ai 5 cappelli Espresso. E anche qui meticolosità, due anni di lavoro per immergersi nel dintorno, creare i menu, cominciare a costruire una squadra. E ora tre ristoranti: La Colonna, nella sede originaria dell’Hotel, mentre nella Club House si trovano l’osteria Il Tuscanico e il Visibilio, l’offerta fine dining.

Branzino, capperi e aglione

La Colonna, gestita dal resident chef Francesco Ferrettini è, probabilmente, l’operazione più complicata, nel tentativo di unire tradizione e creatività, declinare il territorio attraverso uno sguardo contemporaneo. E allora, soprattutto nelle degustazioni, qualche piatto dovrebbe avere una collocazione più Iannottianna, vedi i tortelli di coniglio, zabaione e raviggiolo, che starebbero più a loro agio alle fine del percorso salato che nel mezzo, ma per il tipo di clientela potrebbe essere un azzardo. Ma il resto del cammino procede su binari territorialmente consolidati, mai banali in realtà, dalla lepre in dolce forte all’anatra al Panpepato, carciofo e pinoli, passando per un magnifico risotto floreale e robiola e un perfetto branzino, capperi e aglione.

Peposo

Spostandoci nella Club House, dove il resident chef è Daniele Canella, troviamo l’osteria Il Tuscanico, dove gustare la Toscana comme il faut, quello in cui vorreste mangiare ogni giorno: crostini di fegatini, pici, ereticamente, al cacio e pepe, un peposo da perdere la testa, la zuppa inglese. Pranzo che deve far da preludio, magari dopo una wellness experience, a Il Visibilio. Puro Iannotti style al 100%, senza che il tutto sia un Kresios bis. Piuttosto un Iannotti meets Tuscany, in un menu unico, prendere o lasciare. Si parte con la girandola degli amuse-bouche, qui, come in pochi altri posti, funzionali al dove siamo e a tutto quello che verrà. Un ispirato (e ispirante) distillato di bosco con intorno il tacos di chianina, il gianduiotto ripieno di fegatini con la foglia d’oro a esaltarne la nobiltà, il pane e marmellata, dove quest’ultima è un battuto di colombaccio, immerso nella barbabietola e aguzzato dalla senape, l’iper classicismo del binomio anguilla/mela.

Bottoni di cinghiale

E poi il festival dei piatti, in un apparente disordine libertario che è invece un copione eseguito alla perfezione: la ribollita, riconoscibile subito al morso ancor prima che alla vista con le lumachine che scrocchiano sotto i denti; il pane, fagioli, burro e olio, di francescana bontà; le animelle elevate al cubo dall’assenzio; la terragna carnosità del fungo cardoncello spinta dal limone anche in polpa; l’onnipresente sedano rapa che qui prende la succulenza di una carne, la bevibilità di una kombucha, l’abbinamento alto con il caviale.

Il piccione

Ma il meglio arriva con il piccione semplicemente bollito, ma di vivida consistenza, servito con le sue salse e una tazza del suo brodo: apparenza semplice, realtà gustativa rinascimentale. E potremmo andare avanti, ma non vogliamo togliere la sorpresa di scoprire il resto: vi diciamo solo di un bottone ripieno di cinghiale piastrato con il suo ragù come fosse un gyoza. Di un comparto dolce dove il vegetale è protagonista, senza nulla togliere alla gola. E del finale con una magnifica pesca di Prato, con la quale Iannotti ci spiega non solo dove siamo, ma anche perché ci siamo: per il buono e per il bello.