Home Birra Perché le birre analcoliche non sono il demonio (e quali bere)

Perché le birre analcoliche non sono il demonio (e quali bere)

di Salvatore Cosenza • Pubblicato 8 Aprile 2021 Aggiornato 17 Giugno 2021 13:17

Le birre analcoliche godono di una pessima reputazione, ma in ambito industriale e artigianale si stanno facendo progressi importanti.

Se pensate che le birre analcoliche siano una diavoleria moderna vi sbagliate. la birra analcolica risale al medioevo, non è una bevanda moderna Le prime produzioni risalgono infatti al Medioevo, quando rappresentavano una valida alternativa all’acqua, spesso non potabile per via di contaminazioni batteriche più o meno importanti. Quello zero virgola qualcosa di alcol era una provvidenziale garanzia di salubrità. Col tempo le ragioni di esistere delle birre analcoliche sono cambiate: dal proibizionismo negli Stati Uniti del secolo scorso alle prospettive di mercato nei Paesi islamici, fino a temi più universali come la guida di veicoli in sicurezza e una crescente attenzione nei confronti degli aspetti salutistici. Nonostante l’ilarità che continuano a scatenare tra i bevitori più incalliti, le bevande a base di malto d’orzo e luppolo, ma prive di componente alcolica, sono una realtà timidamente in ascesa.

Definizione di birra analcolica

La legge italiana prevede definizioni diverse a seconda del volume alcolico e dei gradi plato (la percentuale di zuccheri disciolti nel mosto). Nello specifico è considerata analcolica una birra con gradi Plato tra 3 e 8 e una gradazione sotto l’1,2%. Un gradino più su c’è la cosiddetta birra leggera o light (tra 1,2% e 3,5% di alcol), continuando a salire troveremo la birra, la birra speciale e la doppio malto. Tali definizioni, essendo frutto del lavoro del legislatore italiano, non hanno ovviamente valenza universale. Per intenderci, il limite per le birre Alcohol Free è 0,5 % negli Stati Uniti come pure nel Regno Unito, dove però vi è un’ulteriore distinzione per le Low Alcohol Beers, che pur superando il limite di 0,5 %, restano al di sotto dell’1,2 %.

Come si fa la birra analcolica

Ma come si fa a produrre una birra analcolica? Si possono percorrere due strade principali, che a loro volta si diramano in diversi percorsi. Senza entrare troppo nei dettagli, la prima ipotesi consiste in scelte e interventi volti a limitare la naturale formazione di alcol durante il processo produttivo: dall’utilizzo di malti e lieviti modificati all’interruzione della fermentazione. La seconda via, al contrario, prevede una dealcolizzazione del prodotto finito: si può ricorrere a una banale diluizione, oppure a procedimenti termici (come la distillazione), o all’impiego di membrane di filtrazione, come quelle a osmosi inversa.

Questione di gusto

Se da un punto di vista salutistico le birre analcoliche presentano innegabili vantaggi, i timori riguardanti la loro godibilità sono fondati. Non occorre essere dei mastri birrai per capire che le tecniche di produzione che abbiamo solo sommariamente descritto, non sono prive di ripercussioni dal punto di vista organolettico. i progressi tecnologici stanno fornendo soluzioni meno impattanti dal punto di vista gustativo e qualitativo Se si è scelto di intervenire sulla fermentazione, il rischio di off flavour è concreto. Un esempio è l’acetaldeide, composto derivante proprio da fermentazioni instabili. Non è peregrina neanche l’ipotesi di ritrovarsi nella pinta una bevanda immatura, più simile al mosto che a una birra vera e propria. Dal canto loro, anche i processi di dealcolizzazione non sono innocui nei confronti delle componenti aromatiche e gustative. I correttivi esistono, come il ripristino dei composti aromatici perduti, che sono estratti e iniettati nuovamente, ma in genere i risultati sono poco soddisfacenti in termini di armonia. Al contrario l’aggiunta di glicerolo può restituire facilmente corpo alla birra. Per fortuna si stanno compiendo importanti progressi tecnologici, con soluzioni sempre meno impattanti sotto l’aspetto qualitativo e più accessibili da un punto di vista economico: fattori decisivi soprattutto per i microbirrifici artigianali.

Birre analcoliche artigianali

Specialmente negli Stati Uniti e nel Nord Europa, il comparto craft ha iniziato infatti a guardare con interesse a questa particolare fetta di mercato. Poco prima dell’inizio della pandemia, BrewDog ha inaugurato a Londra l’AF Bar, dove AF è l’acronimo di Alcohol Free: un pub interamente dedicato alle birre analcoliche. Non sorprende che un’idea simile sia venuta al celebre birrificio scozzese: la realizzazione della loro prima Ale da 0,5%, risale infatti al 2009. La chiamarono in maniera provocatoria Nanny State (letteralmente Stato della Tata), modo di dire britannico riferibile ai governi che adottano politiche iperprotettive nei confronti dei cittadini.

E in Italia? Nel 2016, interpellato Lorenzo Dabove (aka Kuaska) ci rispose che di fatto non esistevano birre analcoliche artigianali italiane. A distanza di 5 anni è cambiato poco o nulla. in Italia cresce l'interesse per gli stili dalla gradazione contenuta, ma non ancora alcohol free Da registrare sicuramente un maggiore interesse nei confronti di stili dalla gradazione molto contenuta (come le Micro IPA), ma per quanto riguarda le birre al di sotto dell’1,2 % di alcol, siamo ancora nell’ambito delle ipotesi. In tal senso, sta compiendo alcuni test il birrificio novarese Croce di Malto. Raggiunto telefonicamente, il birraio Alessio Selvaggio ha confermato quanto anticipato qualche settimana fa da Maurizio Maestrelli, sulle pagine de Il Sole 24 ore. Andando più nello specifico, ci ha rivelato che gli esperimenti riguardano la Helles e la Bitter, già presenti in gamma, che sono state sottoposte a processi di dealcolizzazione tramite distillazione a bassa temperatura. I risultati, confessa Alessio, sono più che accettabili e sta pensando di compensare le inevitabili perdite aromatiche tramite l’aggiunta di estratti di luppolo a freddo.

Birre analcoliche commerciali

L’industria dal canto suo, pone da tempo sugli scaffali della GDO diverse varianti senza alcool di brand già noti: Beck’s Blue, Heineken 0.0 e Moretti Zero sono senza dubbio le più diffuse, a cui vanno ad aggiungersi le etichette di Bavaria e Paulaner, oltre a quelle marchiate direttamente dalle catene dei supermercati (Coop ad esempio). Facile imbattersi anche nella Tourtel, che a differenza delle altre non è la cugina salutista di nessuno, sebbene faccia parte della grande famiglia giapponese della Asahi Breweries.