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Porceddu: i riti del piatto sardo più conosciuto

di Carlotta Mariani • Pubblicato 17 Gennaio 2020 Aggiornato 19 Ottobre 2021 16:57

Il porceddu è una tradizione antica che continua ad affascinare con i suoi sapori e la sua arte di cottura lenta e paziente. Ecco come si fa.

Il porceddu è una preparazione sacra in Sardegna e un autentico must per i tanti visitatori dell’isola. Di che cosa si tratta? Di un prelibato secondo piatto a base di maialino da latte cotto pazientemente allo spiedo, secondo un’arte che, molto probabilmente, i suini sardi sono conosciuti e apprezzati da migliaia di anni è dovuta all’influenza del dominio spagnolo (VIX – XVIII secolo). Influenza che ha attecchito su un territorio sicuramente fertile. Le testimonianze storiche rivelano, infatti, che già nel 5000 a. C. c’erano allevamenti di suini in Sardegna e i maiali sardi erano conosciuti e apprezzati anche nell’Antica Roma. L’attaccamento alla tradizione locale per questa preparazione è poi dimostrata dal fatto che la Regione ha inserito il suinetto o porcetto sardo da latte nell’elenco dei prodotti tradizionali.

Caratteristiche

A seconda delle zone può chiamarsi porcheddu, porcheddeddu, porceddu o proheddu, ma la sostanza non cambia. Si tratta comunque di un suino da latte nato in Sardegna, con un’età compresa fra i 30 e i 45 giorni e il peso tra i 5 e i 9 kg. La carne è soda, sapida, con una buona presenza di grasso. Questo perché gli animali sono nutriti a latte, al massimo con l’aggiunta di cereali ed erbe, e possibilmente allo stato brado. Tutti elementi che contribuiscono al sapore unico e autentico di questo piatto. Vediamo, però, quali altre tradizioni garantiscono un tocco in più alla preparazione.

I riti prima della cottura

In passato gustare la carne, soprattutto quella di un animale in tenera età, era un lusso. Ogni capo era un investimento, soprattutto per i piccoli pastori che potevano successivamente vendere la polpa e gli altri prodotti ottenuti dal suino oppure utilizzarli per le proprie provviste. un tempo questa ricetta era riservata alla pasqua e alle grandi occasioni Del resto, si sa, del maiale non si butta via niente e quindi, fino a 50-60 anni fa, si trattava di una risorsa importante. A Pasqua e nelle grandi occasioni, come i matrimoni, però, ci si concedeva qualche vizio in più e si portava in tavola il prelibato porceddu. Oggi non è più un pasto così esclusivo ma resta una ricetta tradizionale dei giorni di festa come Pasqua, appunto, o Natale. Ci sono poi diversi appuntamenti popolari dedicati, come la sagra del maialetto sardo arrosto a Baunei (Og) a luglio oppure di Palmadula (Ss) ad agosto. Molte famiglie vanno ancora dal pastore di fiducia, piuttosto che dal macellaio, a scegliere il proprio maialino. E fino a metà del secolo scorso era diffuso un rito molto particolare: dopo l’uccisione, si incideva l’animale alla giugulare e se ne raccoglieva il sangue. Si eliminavano le setole e le viscere, si lavava e, prima della cottura, si spennellava la carne con il sangue raccolto in precedenza per ottenere una cotenna ancora più croccante e saporita.

Una preparazione antica

Non appena l’animale è pronto si procede alla schidonatura, il posizionamento sullo spiedo, procedura importante per garantire una corretta e uniforme cottura alla carne, che tradizionalmente, avviene all’aria aperta e quindi c’è spazio per ben distendere l’animale lungo la lancia metallica. Se questo non è possibile, il maiale deve essere sapientemente piegato e legato con uno spago. A questo punto non resta che cuocere il tutto. La tradizione ci tramanda due tecniche. La prima è quella verticale o indiretta. Lo spiedo è posizionato verticalmente davanti alle braci ottenute da legno di ulivo o ginepro, alla giusta distanza, e cotto lentamente per circa 4 o 5 ore. In questo modo si eviterà di seccare o, peggio, bruciare il porceddu, ma anzi si otterrà un piatto succoso e saporito.

L’altra tecnica, utilizzata in passato in particolare nella zona della Barbagia, nella Sardegna centrale, attorno al massiccio montuoso del Gennargentu, è quella della cottura interrata, detta anche della sepoltura o a carraxu. Tra l’altro, la stessa cosa avveniva storicamente da tutt’altra parte del mondo, in Giamaica, per il tipico jerk. Come funzionava? Si scavava una buca e, all’interno, si predisponeva la brace bruciando i rami del mirto. Si posizionava la carne, magari cosparsa di erbe aromatiche, e si lasciava cuocere per circa 7 ore. Oggi, naturalmente, è diffusa anche la cottura orizzontale al girarrosto, manuale o meccanico, ma deve sempre essere lenta e attenta per garantire in tavola una carne tenera e una cotenna dorata.

Sale e profumi

Naturalmente, come avviene per ogni antica preparazione che si rispetti, ogni famiglia ha la sua ricetta e le sue abitudini. Tutti però sono d’accordo nel salare la carne solo a metà cottura per mantenere le carni morbidi e garantire una superficie croccante. Diverse sono invece le opinioni sull’eventuale aggiunta di altri ingredienti. C’è, infatti, chi imbottisce o aromatizza il maiale con profumi locali, come quello del mirto, o di altre erbe aromatiche, dall’alloro al finocchietto selvatico, dal rosmarino al timo. Chi, invece, preferisce fare una rapida affumicatura su un fuoco di arbusti di mirto prima della cottura vera e propria. Altra abitudine diffusa, soprattutto nelle zone di montagna, è quella di irrorare il porceddu con lardo fuso.