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Strutto, la crescia di Urbino che spopola a Copenaghen

di Marta Manzo • Pubblicato 18 Febbraio 2022 Aggiornato 21 Febbraio 2022 11:06

Non solo grandi ristoranti a Copenaghen: da poco, in città, è arrivata la Crescia di Urbino di Strutto. Ecco l’intervista ai suoi creatori.

Broens Gadekøkken, a Copenaghen, è una piccola fucina di street food. Si trova a due passi dal centro città, in una suggestiva posizione sui canali, e la vista spazia tra l’antico porto di Nyhavn, la Royal Danish Playhouse e il teatro dell’Opera. A Broens Gadekøkken ci sono piccoli chioschi, di altissima qualità, che servono cibi e bevande provenienti da tutto il mondo. E, tra un fish&chips e una pita, incredibilmente si trova anche la crescia di Urbino. Come ci è finita lì? La colpa è di Luca Donninelli. Ha 32 anni, è marchigiano, e qui ha aperto il suo chiosco Strutto. Tutto qui, direte voi? No. La storia di Strutto è molto più avvincente di così. È frutto, infatti, di una trama ricca, fatta di cambi location, colpi di scena, amore, ma soprattutto di tanta, tanta, passione.

Luca, raccontami chi sei.

Io sono nato a Jesi, nelle Marche. Nel 2008 mi sono diplomato all’alberghiero di Cingoli e, nel frattempo, prima della fine del quinto anno, ho studiato come sommelier, da esterno, la sera. Con questa passione per il vino ho provato a lavorare nei dintorni di casa, ma non c’era nulla che mi stimolasse. Così sono partito per Londra, dove sono rimasto a lavorare per circa tre anni.

Poi sei rientrato in Italia.

Cominciava a pesarmi la distanza da famiglia e amici e sono rientrato in Italia alla ricerca di qualcosa di valido. Avevo esperienza con gli stellati e una buona conoscenza dell’inglese, così sono andato dagli Alajmo. A Padova, ma anche a Venezia, dove avevano appena aperto il Quadrino, sempre come primo sommelier.

Non sei riuscito a rimanere fermo.

Era diventato troppo lavoro d’ufficio, a un certo punto per me non era più stimolante. Volevo cambiare, per vedere cose nuove. Nel 2014 era il periodo del Noma come miglior ristorante al mondo, da 4 anni di fila, spopolava. Mi intrigava la nordic cuisine, il posto consentiva buone condizioni di lavoro e di vita. In quel momento, poi, ero fissato con gli stellati. Sono venuto a Copenaghen, il primo curriculum l’ho portato proprio al Noma. Mi hanno chiesto una settimana di prova, ho detto no grazie. Da lì mi sono agganciato ad altri 3 ristoranti: Kokkeriet, Geranium, Relæ. Ho finito per lavorare in quest’ultimo, come manager, dello chef Christian Puglisi, un datore di lavoro e un grande amico. Avevo trovato qualcosa di diverso, una tipologia di servizio e dettaglio, senza essere invadenti con il cliente. C’era la materia prima, c’era il vino di qualità, ma senza ossessione.

A settembre 2020, però, arriva una bella batosta.

Partecipammo a un meeting alle 10 del mattino. Ci raccolsero tutti e ci dissero, un po’ a bruciapelo, che da lì a 4 mesi avremmo chiuso. Dopo 7 anni che ero lì. Mi ha colto alla sprovvista. Dove vado, cosa faccio? Il problema era trovare le stesse motivazioni, trovare qualcosa che credesse nelle stesse cose del Relæ.

Che c’era sul piatto?

La scelta era tra un lavoretto così, giusto per alzare lo stipendio, oppure portare avanti un’idea che avevo: aprire una piadineria. Offrire un prodotto italiano, che funziona in Italia e che qui non c’è, in low profile senza troppe pretese, visto che non sono chef. Semplice e immediato, come un punto aperitivo, due o tre cocktail in lista. Era un’idea che mi era venuta dopo una lunga chiacchierata con lo chef Stefano Ciotti del Nostrano di Pesaro. C’eravamo scritti e sentiti, ero andato a mangiare da lui, ero entrato per pranzo e sono uscito la sera. Ci siam presi bene, molto, a parlare della differenza Italia-Danimarca. Lui mi ha lanciato l’idea di aprire al porto di Pesaro locale piadine e gin tonic. E io ho pensato: a Copenaghen non c’è una cosa del genere.

Era una piadina, però, non una crescia.

A spingermi verso la crescia è stata Cecilia (Aroni, ndr). Di Acqualagna, era venuta a Copenaghen verso la fine del 2020 in vacanza per qualche giorno. Ci siamo conosciuti al Relæ, era venuta per pranzo, aveva anche lei idea di trasferirsi per lavoro. Io avevo questa idea della piadina, ma è stata lei a insegnarmi come fare la crescia di Urbino.

Cecilia, raccontami tu.

Io ho studiato da pasticcera, vivevo a Milano e avevo semplicemente voglia di cambiare, per imparare qualcos’altro. Visto che Copenaghen è piena di bakery, avevo deciso di provare e appena ho trovato lavoro mi sono trasferita. Ho conosciuto Luca, ma poi eravamo rimasti soltanto in rapporti sporadici, perlopiù lavorativi. Poi abbiamo cominciato a frequentarci meglio. Un po’ nostalgica del cibo dopo un anno via di casa, visto mi piace cucinare quando stacco da lavoro, mi ero messa a provare la ricetta della crescia di mia nonna Maria. Ne abbiamo mangiate diverse, anche troppe forse. Da lì per scherzo, alla leggera, un giorno ne abbiamo fatte un tot e abbiamo chiesto ai danesi su Instagram se volessero ordinarle. Solo base, da farcire.

Cioè, Luca?

Era il 5 gennaio 2021. Io ero bloccato a casa, senza lavoro, mi annoiavo. Qui era tutto in lockdown, per un periodo esteso. A casa avevo tempo e possibilità di impastare, di fare foto. Comincio a postare, spiego cosa facciamo. Parte la sfida. “Facciamo una storia e diciamo che per dopodomani possono ordinare fino alle 16“. Il primo giorno ci troviamo con 50 cresce da fare. Non avevamo niente, zero packaging, era tutto chiuso. Ci siamo costruiti le buste da soli, con della carta. Abbiamo lavorato fino a tardi per farle tutte e poterle consegnare.

Better than a fucking tortilla, ci hai scritto sopra.

Andavo a consegnarle in bici, era freddissimo. Lo slogan era uno sfogo, veniva da dentro. Non ce l’avevo con i messicani, non ce l’avevo con la tortilla in sé. Ce l’avevo con la tortilla del supermercato, che era il mio spuntino di mezzanotte quando tornavo dal Relæ. È da lì che mi è venuta la voglia di dire “questa è meglio della tortilla marcia del supermercato“. Lo sapevo che era provocatorio, volevo animare la città, sapevo che avrebbero fatto foto prima di tutto al packaging e che ci avrebbero taggato. Ne hanno parlato tutti. Male, soprattutto, ma ne hanno parlato. Ma è immediatamente diventato riconoscibile. Ho consegnato 40-50 cresce al giorno, per circa 4/7 a settimana. Siamo finiti sui giornali, alcuni food blogger ci hanno ripostato. Strutto, il nome, è venuto da Cecilia. Ci serviva un nome italiano, che facesse già capire, anche se la gente qui non sa cos’è lo strutto.

Passa la prima notte, arriva il secondo giorno. Ed è una catastrofe.

Il giorno dopo lei va a lavoro e rimango solo. Non mi sono venute. Preso dal panico corro da lei in bakery con una crescia, quasi in lacrime, e le dico “assaggia“. Mi risponde: “No, non è così“. Un fallimento. Ho dovuto richiamare tutti per annullare gli ordini. Colpa della farina, che non andava, era una farina bio danese poco stabile. Ci è voluto un anno di prove per ottenere un buon prodotto, che ancora sto perfezionando. La cucina di casa era molto limitata e anche la selezione dei prodotti ha richiesto tempo. Prima utilizzavo lo strutto industriale, ora quello di un allevamento sostenibile poco fuori Copenaghen. Ma il mio ingrediente segreto è il parmigiano, anche se non è nella ricetta tradizionale.

Accade, un giorno, che arriva un ordine in particolare.

Fra uno dei miei tanti ordini trovo quello di Antonio Dell’Aquilano, manager per Bologna Fiere, che vive e lavora a Copenaghen. Aveva letto un articolo sul giornale e ci aveva scritto su Instagram per ordinare. Io dico ok, vado per consegnargli le cresce, parliamo in inglese, vado via. Ma sento un click. Scendo le scale, torno a casa, penso “lui è uno giusto“. Dopo un’ora mi scrive di nuovo. “Voglio saperne di più di questo progetto“. Io cercavo un investitore, per cui ci siamo visti per un caffè. Da lì abbiamo fatto la prima stagione l’anno scorso nel food market di Broens Gadekøkken e stiamo per ripartire con la seconda.

Che dice il menu di Strutto?

C’è la crescia crudo, stracchino e rucola. Quella mortadella e pomodorini. Poi ciauscolo, pecorino ed erbe. C’è porchetta, salsa verde e melanzane e quella dolce con la crema spalmabile alle nocciole. Da quest’anno, poi, vorrei lanciare i taglieri da condividere. Mi rimane comunque l’idea di uno store fisico in centro, con un menu un po’ più ampio, un low profile dove passare tempo, per qualche chiacchiera, per recuperare da un hangover, per stare in tranquillità.

Piace, la tua crescia?

La prima stagione è stata buona, ci vorrà solo tempo. Essendo un prodotto nuovo i danesi non sanno bene cosa sia e la confondono ancora con i pancake. Gli italiani, tanti, tantissimi, ci hanno dato un gran bel feedback. La cucina manca loro parecchio, vedevano lo stracchino e gli brillavano gli occhi. Io penso che il prodotto sia buono, perché per accontentare gli italiani ce ne vuole. I danesi arriveranno.

Dai ristoranti stellati al chiosco di crescia. Senti di essere tornato indietro?

Lo stellato era un periodo di me, un’idea che aveva il suo fascino, il suo business. Se ripenso a 10 anni indietro avrei dato la vita per quello. Ora come ora vedo le cose in maniera molto diversa. Portare avanti un’idea del genere, valorizzare il mio territorio e i miei prodotti, anche in una terra straniera, mi dà molta più soddisfazione. Dalla sala a questa cucina il cambiamento è stato radicale, ma molto semplice. Forse lo avevo già in me.